Durante la scorsa
puntata Report è entrato in un ambiente molto caro a noi appassionati di Internet e dintorni: l'argomento erano infatti i social network, la privacy, la sicurezza, la monetizzazione delle informazioni ricavate dagli utenti e anche la libertà di informazione.
Secondo me, tutto sommato, è stata data una buona informazione di base, per un programma con un tale bacino di spettatori, anche se alcune tematiche meritavano maggiore attenzione e andavano trattate con un po' più di sensibilità, perché è molto facile che un utente medio, dopo una puntata del genere, si senta impaurito ad utilizzare la Rete.
Ma andiamo con ordine.
Il servizio parte con uno spiccato tono di sorpresa nei confronti del fatto che Facebook e Google guadagnino soldi attuando una sorta di selezione delle tematiche a cui uno specifico utente è interessato al fine di proporgli
pubblicità mirata. A prescindere dal fatto che non ci vedo nulla di male (pensate ad esempio alla televisione: la pubblicità è diversa a seconda della fascia oraria e del programma all'interno del quale è inserita), se proprio devo sorbirmi dei banner pubblicitari, personalmente sono ben felice che questi siano pertinenti ai miei
interessi, piuttosto che ricevere annunci su fertilizzanti, borse di Louis Vuitton o scarpe della Nike, di cui non me ne può importare di meno. Magari alla fine qualcosa di appetibile lo trovo pure, per la felicità e la soddisfazione mie e dell'inserzionista.
La frase emblematica di questa puntata, che dà anche il titolo alla stessa, è: "
il prodotto sei tu". Piuttosto che la consapevolezza di essere un prodotto si doveva però porre particolare enfasi sulle scarse conoscenze e sulla superficialità che dilagano tra la stragrande maggioranza degli utilizzatori di questi servizi circa il modo di
limitare le informazioni pubblicamente accessibili. Perché il problema non sono Google o Facebook che, in maniera del tutto automatizzata, analizzano le tue abitudini e fanno in modo che tu abbia un'esperienza più vicina ai tuoi interessi, il punto è che se tralasciamo di filtrare per bene quello che esce all'esterno, chiunque può accedere alle nostre informazioni e utilizzarle per i suoi scopi.
L'affermare che, al momento della sottoscrizione del contratto d'uso, si consentirebbe a Facebook di
cedere a terzi i nostri dati, è vera a metà. Una parte dei terzi di cui parliamo sono gli sviluppatori delle centinaia di migliaia di applicazioni che si possono "installare" sul proprio profilo. Quando clicchiamo sul tasto "Installa" veniamo informati in modo preciso dei dati ai quali l'applicazione vuole accedere, e siamo liberissimi di
rifiutare. Io, per esempio, non ho installato nessun tipo di gioco o applicazione del genere, perché delle terze parti non mi fido. L'altra parte sono gli inserzionisti che sfruttano la piattaforma per operazioni di marketing molto mirate. Ma anche in questo caso non sono i dati del singolo ad essere importanti, quanto la loro
contestualizzazione e aggregazione per ricerche di mercato e targeting. A loro non importa che Simone Fracassa abiti in via Tizio e Caio, e che abbia un amico di nome Mario Rossi, ma sono interessati all'
insieme di tendenze che una moltitudine di singoli individui tratteggia con la semplice attività quotidiana. In questo modo possono indirizzare la loro pubblicità a segmenti di mercato estremamente precisi, come viene illustrato anche nel corso della puntata.
Attenzione quindi ai termini: dire "Facebook cede i tuoi dati a terzi" vuol dire che questi terzi sanno che io mi chiamo così, che abito in via TOT, che tra gli amici ho un dipendente della ditta XYX, e così via, ma la realtà non è proprio in questi termini.
Discorso analogo per quanto riguarda la vicenda capitata alla signora che ha messo su Youtube un video della sua bambina, con l'intento di farlo vedere solo in ambito familiare, e se l'è poi ritrovato in un programma di Italia 1 all'interno di un contesto di maltrattamenti su minori. Ora, è assolutamente vero che nessuno può prendere un video su Youtube senza il consenso del diretto interessato, quindi sono più che giustificabili l'indignazione della signora e la diffida che ne è scaturita successivamente. Ma guardiamo anche l'altra faccia della medaglia: Youtube permette di rendere un video
privato e di farlo vedere solo a chi vogliamo noi. Esattamente come Facebook ci consente di decidere
nel dettaglio cosa far vedere e a chi.
Quello che forse non è ben chiaro è che queste sono aziende a tutti gli effetti, e come tutte le aziende il loro fine ultimo è ricavare un profitto. Google, Facebook, Youtube, e tutti gli altri mettono a disposizione dei servizi gratuiti in cambio dei quali l'utente accetta di diventare il "vigile urbano" della pubblicità a lui indirizzata, semplicemente con le sua azioni, la maggior parte del tempo in modo inconsapevole, automatizzato e addirittura naturale. Ed è normale che tutto quello che scriviamo o condividiamo
nei nostri profili pubblici venga analizzato dalle grandi aziende per tracciare l'andamento dei trend in tempo reale, un bacino di dati così precisi e dettagliati non se lo lasciano di certo scappare. Gli strumenti cosiddetti di "web listening" analizzano i canali pubblici più disparati e riescono a definire profili precisi di quello che la gente vuole in un dato momento, agendo di conseguenza e riuscendo ad esempio a proporre "il prodotto giusto al momento giusto". Non volete essere "spiati"? Vi basta mantenere
private tutte le vostre attività sociali sul web.
Allo stesso modo se non volete essere geo-localizzati ovunque vi troviate, è sufficiente disabilitare l'apposita funzione sul vostro smartphone. Nel momento in cui fate il login su Foursquare (per dirne uno) è
implicito che forniate un'informazione che potrà essere usata per sapere che in quel momento voi vi trovate in quel preciso posto, con tutto ciò che ne consegue. Ma
siamo sempre noi a fornire queste informazioni, e abbiamo sempre il potere di non renderle pubbliche.
La leggerezza con la quale si utilizzano gli strumenti messi a disposizione su Internet è una delle maggiori cause di furti di account, in particolare l'utilizzo di password deboli, spesso consistenti in singole parole di senso compiuto facilmente deducibili. La gamma di servizi che è possibile usare comodamente seduti alla propria scrivania è davvero vastissima, ma necessita della stessa attenzione che poniamo tutti i giorni in attività particolarmente a rischio (come prelevare denaro dal bancomat, ritirare la pensione in posta, leggere attentamente prima di firmare qualsiasi foglio, e così via). E' vero che in Rete i pericoli ci sono, esattamente come accade nella vita reale, ma l'allarmismo utilizzato nel servizio secondo me è eccessivo, basta tenere gli occhi aperti, come in qualsiasi altro ambito del resto.
Sull'estensione di Firefox chiamata "Firesheep" (che permette lo sniffing dei cookie di sessione) è stato chiaramente specificato che si stava parlando di
reti non protette, tuttavia la maggior parte della colpa è stata scaricata su chi offre il servizio. E' sicuramente vero che è bene che i vari Facebook, Twitter, Google e compagnia si adoperino per far circolare i dati su connessioni protette, ma anche l'utente ha le sue responsabilità e deve essere sensibilizzato a questo genere di problematiche. Penso che nessuno di noi salirebbe su una macchina guidata da uno sconosciuto che si è fermato accanto a noi sul ciglio della strada, no? Allo stesso modo, allora, non dovremmo fidarci di una rete wi-fi non protetta, perché c'è il rischio che qualcuno sia "in ascolto".
Cito dalla puntata:
Stefania Rimini, nel corso di un
servizio andato in onda su Report il 10 aprile 2011
Quindi loro controllano solo i servizi più diffusi, come i 250 che hanno più di 1 milione di iscritti. Ma in totale su Facebook un utente può trovare 550mila servizi. E' sufficiente che uno qualunque dei miei amici si iscriva ad un'applicazione canaglia tra le 500mila non controllate e questa, in certi casi, potrà sgraffignare anche i miei dati, oltre ai dati del mio amico.
Premesso che, come ho già spiegato, al momento dell'installazione di un'applicazione o di un servizio viene visualizzato un avviso in cui sono chiaramente specificati i dati personali a cui quell'applicazione vuole accedere, la possibilità o meno di avere a disposizione i dati dei propri amici è una delle opzioni di privacy che possono essere configurate insieme a tutte le altre. Basta sapere che c'è.
Per concludere non mi sento di criticare eccessivamente il taglio che Report ha deciso di dare a questa puntata, sopratuttto perché le cose, alla fine, vengono dette in maniera abbastanza chiara o comunque intuitiva. Diciamo però che un argomento del genere avrebbe forse meritato un po' più di precisione, approfondimento e soprattutto un tono meno allarmistico.
Non le dico certo per fare allarmismo, infatti non ho mai fatto propaganda anti social network... Ognuno dovrebbe informarsi di quello che sta facendo e, se è in grado, dovrebbe prendere le precauzioni necessarie.
Qui il problema è che non solo pochissimi sono in grado di prendere le precauzioni necessarie, ma non si preoccupa nemmeno di informarsi... Se poi a nessuno interessa informare, dal momento che più utenti ignari -> più soldi (vedi monetizzazione, mi stupisce che la puntata non abbia analizzato questo semplice rapporto di causa-effetto), il gioco è fatto.
Secondo me questa è una goccia nel mare... E' vero che nel mondo internet gli utenti facebook sono la quasi totalità, ma questo pressappochismo si può estendere a qualsiasi aspetto della vita.