_ scritto il 28.11.2010 alle ore 15:25 _
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Scrivere un commento ad un'opera come questa è cosa tutt'altro che semplice, perché trovo oltremodo riduttivo chiamarlo semplicemente "libro". Cent'anni di Solitudine è un piccolo mondo, una sorta di "saga generazionale", che racconta la storia di una famiglia d'altri tempi, i
Buendìa, dalla nascita all'inesorabile decadimento del loro villaggio sorto in mezzo alle paludi.
Macondo fu fondato su solidi valori dal capostipite della famiglia, Josè Arcadio Buendìa, e sopra le sue fondamenta si dipana il sottile e intricato filo che lega
sette generazioni di persone, tutte tratteggiate in modo così intimo e profondo che si finisce irrimediabilmente per affezionarsi a ciascuno di essi, sebbene in maniera diversa.
Tutto, in questo libro, ha il ruvido sapore della
realtà. Una realtà spesso unta, sporca, ma affascinante proprio perché tangibile. I gesti quotidiani, le abitudini, gli oggetti, le manie e le superstizioni, ma anche paure, desideri e pensieri di chi abita questo incredibile villaggio, contribuiscono a dipingere nella mente del lettore una tela vivida e particolareggiata. Sebbene Macondo sia un posto immaginario (sembra essere fortemente ispirato al paese natale di García Márquez), è inserito in un contesto storico e territoriale ben preciso, il che contribuisce a donare ulteriore profondità alla miriade di vicende e relazioni che si vanno susseguendo. Ed è proprio la natura
circolare del tempo uno dei pilastri su cui poggia l'intera opera: con ogni generazione tornano infatti a ripetersi scelte e azioni, ma anche convinzioni e stati d'animo, come in una sorta di danza in cui scorgere schemi ben definiti. Ci si sente umili dinnanzi alla moltitudine di storie, tratti psicologici e avvenimenti che l'autore è riuscito a far coesistere. Per comprendere a fondo l'intricata ramificazione dell'albero genealogico si è spesso tentati di fare qualche salto indietro durante la lettura (su Wikipedia c'è uno
schema fatto molto bene).
Avevo già apprezzato la capacità di García Márquez di descrivere in modo minuzioso, diretto e sintetico con i suoi
Dodici racconti raminghi, ma con questo libro credo abbia toccato vette altissime. Il suo particolarissimo concetto di "realismo magico" rende poi sfumati i confini tra realtà e fantasia, creando un
substrato fatto di simbologia, alchimia e presagi che si mischia a quello della concretezza. Ed ecco che la linea che separa i vivi e i morti, a Macondo, diventa sbiadita e
qualche goccia di uno dei due mondi cade nell'altro, confondendosi e confondendo.
Potrei parlarvi di Ursula, forse l'unica vera colonna portante dell'intera famiglia, o del Colonnello Aureliano Buendìa e dei suoi pesciolini d'oro, affascinato e infine rapito dai suoi stessi ideali rivoluzionari liberali. Potrei parlarvi per ore di ogni singolo membro di questa famiglia, ma non avrebbe senso, perché Macondo un senso ce l'ha solo se vissuto attraverso l'incredibile penna dell'autore. E' quindi con la stessa umiltà provata durante la lettura che mi sento di affermare che questo è uno di quei libri che lasciano davvero il segno. Un autentico capolavoro, indiscutibilmente. Leggetelo, uno spettro di emozioni così vasto lo troverete in pochissime altre opere.
"Cent'anni di solitudine" - Gabriel García Márquez, traduzione di Enrico Cicogna, Mondadori Editore
Amaranta pensava a Rebeca, perché la solitudine le aveva selezionato i ricordi, e aveva incenerito gli intorpidenti mucchi di mondezza nostalgica che la vita aveva accumulato nel suo cuore, e aveva purificato, magnificato e eternizzato gli altri, i più amari.
"Cent'anni di solitudine" - Gabriel García Márquez, traduzione di Enrico Cicogna, Mondadori Editore
Erano le ultime cose che rimanevano di un passato il cui annichilamento non si consumava, perché continuava ad annichilarsi indefinitivamente, consumandosi dentro di sé stesso, terminandosi in ogni minuto ma senza terminare di terminarsi mai.
[Altre citazioni:
nostalgia]
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